13. Parigi di notte: Brassaï, di Cinzia Busi Thompson
13. Parigi di notte: Brassaï, di Cinzia Busi Thompson
Vedendo ciò che lei esprime con la fotografia, ci si rende conto di tutto ciò di cui la pittura non può più occuparsi … Perché l’artista dovrebbe ostinarsi a rendere ciò che si può fissare così bene con l’aiuto dell’obiettivo? Sarebbe una follia, non è vero? La fotografia è arrivata al momento giusto per liberare la pittura da tutto ciò che è narrazione, dall’aneddoto e persino dal soggetto … In ogni caso un certo aspetto del soggetto ormai fa parte della sfera della fotografia … E perché i pittori non dovrebbero approfittare della libertà riconquistata per fare qualcosa di diverso?” (Picasso, 1939) Gyula Halász (1899-1984) nasce a Brasso in Transilvania. Brassaï, il nome che adotta, significa appunto “da Brasso”. Suo padre, professore di letteratura francese lo porta, ancora bambino, per un anno, a Parigi, da allora nasce il suo eterno amore per questa città della quale, più tardi, ne sviscererà tutti gli angoli. La sua aspirazione è diventare pittore; infatti, egli studia prima all’Accademia di Budapest (1919-20), poi a quella di Berlino (1921- 22) ed infine approda, nel 1924, a quella di Parigi, dove si trasferisce lavorando come giornalista, disegnatore e pittore. La fotografia non lo interessa finché, alcuni anni dopo il suo arrivo a Parigi, nel 1926, l’amico e compatriota André Kertész se lo porta con sé nelle sue peregrinazioni notturne per le strade di Parigi. La macchina fotografica era sul cavalletto ed a Brassaï pare che siano trascorsi secoli parlando vicino a lei. “Scatta la tua foto ed andiamocene” “La sto scattando” risponde Kertész “Aspetta altri quindici minuti, poi sarà pronta”. Brassaï rimane folgorato “Apri una piccola scatola nel bel mezzo della notte e dopo una mezz’ora ottieni una foto?”. Dopo aver visto il negativo sviluppato, decide di comprare una macchina e comincia a fotografare. “Avevo una profusione d’immagini da portare alla luce, che durante i lunghi anni passati a camminare attraverso la notte, non avevano mai cessato di allettarmi, inseguirmi, addirittura ossessionato, e poiché non vedevo modo di afferrarle se non con la fotografia, feci alcune prove”. I suoi primi soggetti sono le architetture, ma soprattutto quelli che lo attraggono maggiormente sono le case d’oppio, quelle di tolleranza, i bistrot e tutte le persone che animano la Parigi notturna, specialmente quelle che appartengono alle classi meno privilegiate, gli emarginati, i clochard, gli omosessuali, le prostitute ed i protettori. La môme Bijou, una delle sue foto del 1932 ci mostra una donna giunonica, forse una prostituta, agghindata con collane ed anelli di perle smaccatamente false, seduta al tavolino di un bistrot parigino, mentre fuma una sigaretta. I suoi occhi tranquilli, pesantemente sottolineati da un trucco molto marcato ed appariscente, ci guardano da sotto il suo cappello con veletta. La sua bocca, carica di rossetto, è atteggiata ad un sorriso ironico. Lei è conscia della parte che sta recitando (forse tutta la sua vita è una recita) e chi la guarda può solo ammirarla per la sua interpretazione, perché non è possibile esprimere giudizi su di lei, nessuno può sorridere, né commuoversi tanto distante lei è dai suoi spettatori. Questo è lo spirito con cui Brassaï ci propone i suoi soggetti; uno spirito che in qualche maniera può essere ricollegato a quello del fotografo tedesco August Sander, i cui soggetti sono consapevoli di essere ripresi e si atteggiano ad attori che recitano il loro ruolo, ma sui quali egli non esprime giudizio alcuno.
Non possedendo apparecchiature sofisticate, la sua tecnica di ripresa è alquanto primitiva. Monta l’apparecchio a lastra (una Voigtländer Bergheil 6×9) su un treppiede, apre la tendina e quando è pronto fa scattare un flash a lampadina. È l’inventore della “posa Boyard”, calcolata secondo il tempo impiegato per fumare una sigaretta. Se le immagini che ottiene non rispecchiano la luce reale, poco gli importa perché i risultati che ottiene sono sicuramente più vicini al suo modo di vedere le cose, un modo molto diretto e privo di pietà. Sostanzialmente egli non vuole catturare il movimento, bensì l’essenza. “Il mio ‘metodo’ lo (Picasso) incuriosisce. Io guardo raramente nel Le corset Foto di Brassaï 23 vetro smerigliato, misuro le distanze con una funicella e qualche volta illumino la scena con il lampo al magnesio”. Nel 1932 egli pubblica il suo libro fotografico più famoso “Paris de Nuit”, nel quale raccoglie le immagini di questa sorta di “corte dei miracoli” e che gli porta immediatamente fama mondiale. In quegli anni a Parigi impera il Surrealismo. Sebbene Brassaï sia adottato dal gruppo dei Surrealisti egli non ne entra mai veramente a far parte. La sua fotografia non porta tracce delle elaborazioni tipiche dell’opera di Man Ray, in quanto lui non le ritiene necessarie, poiché “l’universo d’altronde non era, mi dico, nel sogno risvegliato, ma si trovava nel naturale risvegliato”. Man Ray, Salvador Dalì, Alberto Giacometti, Henri Matisse, Picasso ed Henry Miller sono solo alcuni degli artisti con i quali egli stringe rapporti d’amicizia, che dureranno per tutta la vita. A testimonianza rimangono numerosi ritratti; il più noto di tutti quello di Picasso, scattato nel 1932, che con “i suoi occhi di brace, due diamanti neri” sembra ipnotizzare lo spettatore. “Allora, quando fotografavo qualcuno, mi accontentavo di una sola posa. Pensavo, a torto o a ragione, che concentrandomi su un unico ritratto avrei potuto cogliere il carattere del personaggio, meglio che non scattando decine di fotografie, come usa fare adesso.
Durante l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi (1940-45), Brassaï deve accantonare la fotografia in quanto richiamato da loro, egli si rifiuta di collaborare (era inoltre proibito fotografare all’aperto). Continua comunque a fotografare “privatamente” l’opera di Picasso e di altri artisti dedicandosi soprattutto alla pittura, al disegno ed alla scultura. Nel 1945 comincia ad esporre le sue opere in diverse gallerie d’arte. “Sorpresa di Picasso. Ignorava che io avessi mai disegnato. Li guarda attentamente (disegni fatti a Berlino nel 1921), si stupisce e mi dice: ‘Lei è un disegnatore nato … Perché non continua? Ha in mano una miniera d’oro e ne sfrutta una di sale’”. Nello stesso periodo crea le prime scenografie per balletti. Negli anni ’50, oltre che a dedicarsi ad una scultura d’estremo rigore formale, si dedica alla fotografia dei graffiti che ornano i muri di Parigi. Sotto i nostri occhi appaiono figure stilizzate e teste che urlano, scritte ed arabeschi. I graffiti costituiscono il primo esempio conosciuto d’espressione “artistica” dell’uomo. Attraverso di essi l’uomo primitivo si raccontava e raccontava, in maniera diretta, senza quelle mediazioni frutto di millenarie civiltà, i suoi impulsi primordiali quali il sesso, l’ira, l’impotenza, l’amore. In definitiva sono proprio questi impulsi che accomunano, in una continuità artistica, le “sue” creature notturne alle foto dei graffiti. Nel dopoguerra collabora come free-lance con scritti e fotografie a numerose riviste come “Le Minotaure”, “Verve”, “Le Coronet”, “Picture Post” ed “Harper’s Bazaar”. Nel 1955 gira il film “Tant qu’il y aura des bêtes” che nel 1956 vince, al Festival di Cannes, il premio per la pellicola più originale. Nel 1966 è premiato dall’American Society of Magazine Photographers e nel 1976 riceve la Légion d’Honneur. Rudyard Kipling in una sua poesia afferma che per essere uomini bisogna sapere camminare con i Re e parlare con i Poveri. Brassaï probabilmente è stato il fotografo che più di tutti ha incarnato l’Uomo secondo questa “definizione”. Lui ha vissuto “duellando” con Picasso ed allo stesso tempo ha diviso le sue notti con gli uomini e le donne di strada. I suoi autoritratti – che mostrano un uomo qualunque, se non fosse per i suoi grandi occhi sporgenti – svelano il suo segreto: l’umiltà ed il rispetto che egli ha saputo meritarsi dai Re ed ha sempre dimostrato ai Poveri.