8. La manipolazione della luce: Man Ray, di Cinzia Busi Thompson
8. La manipolazione della luce: Man Ray, di Cinzia Busi Thompson
Man Ray (1890-1976), fotografo e pittore, nasce a Filadelfia (USA) come Michael Radnitzky (anche se sul vero cognome ci sono tuttora delle perplessità). Nel 1904 segue corsi di disegno libero ed industriale, nel 1910 mentre lavora come grafico a New York, frequenta la galleria 291 di A. Stieglitz dove scopre le avanguardie artistiche. Nel 1915 partecipa, in veste di pittore, alle prime mostre dove ha occasione di incontrare Marcel Duchamp, con il quale nel 1920 comincia a collaborare. Nel 1921 si trasferisce a Parigi, dove grazie a Marcel Duchamp, si avvicina al gruppo dei Dadaisti. Il vocabolo Dada fu preso a caso dal dizionario (francese) e, nel linguaggio dei bambini, significa cavallo a dondolo. Tzara dice: “Dada non significa nulla, è un prodotto della bocca”. Gli artisti appartenenti a questo movimento rifiutano il concetto di arte; il gesto dell’artista eleva il comune oggetto prodotto in serie al grado di opera d’arte al fine di ridurre tutti gli oggetti e le opere d’arte allo stesso livello. Alla base ci sono la distruzione dei valori e legami etico-culturali, la casualità, l’ironia e l’assunzione di materiali ritrovati, ovvero degli objets trouvés come mozziconi, foglie, ecc. “Ciò che mi interessa è un oggetto che non sembri un’opera d’arte; qualcosa che sia più o meno utile … Non è necessario andare in un museo o in una galleria; essi sono vicini a noi” Poiché con la sua attività pittorica non riesce ad avere entrate economiche sufficienti a mantenersi, inizia a fare ritratti fotografici e foto di moda per Paul Poiret. Usa inoltre la fotografia per “documentare” le sue opere, in quanto gli oggetti, una volta usati, vengono spesso distrutti, gettati o dimenticati. Questa sarà una funzione utilitaria della fotografia che egli non esclude mai. É un errore fotografico ad aprirgli le porte dell’alta società parigina. Infatti, fotografando la marchesa Casati in scarse condizioni di luce, ottiene dei negativi sfocati dove però appaiono tre paia di occhi. La marchesa rimane strabiliata dal risultato asserendo che ha ottenuto “il ritratto della sua anima”. Da quel momento comincia a fotografare deliberatamente fuori fuoco in quanto, attraverso la sfocatura, riesce ad ottenere una fusione tra gli elementi di contorno ed il soggetto. In un’altra occasione, accingendosi a fare un ritratto di Matisse, si accorge di aver dimenticato l’obiettivo della sua macchina fotografica; lo sostituisce con i suoi occhiali da vista ed il risultato che ottiene è una foto sfocata, dove però gli elementi più importanti sono nitidi.
Man Ray non è particolarmente interessato alla tecnica fotografica, ma riesce ad acquisire una preparazione tecnica tale da permettergli di padroneggiare il mezzo ed usarlo per i suoi scopi. Egli, in quanto artista multimediale è, senza dubbio, colui che può, meglio di chiunque altro definire i “confini” fra pittura e fotografia. “Fotograferei un’idea piuttosto che un oggetto, ed un sogno più che un’idea”. Nella fotografia egli infatti inventa e reinventa tutto; là dove la fotografia “classica” non basta ai suoi scopi, egli sviluppa nuove tecniche e procedimenti che si rifanno a quelli del secolo precedente. “Dipingo ciò che non può essere fotografato e fotografo ciò che non desidero dipingere. Se mi interessano un ritratto, un volto o un nudo, userò la macchina fotografica. É un procedimento più rapido che non fare un disegno o un dipinto. Ma se è qualcosa che non posso fotografare, come un sogno o un impulso inconscio, devo far ricorso al disegno o alla pittura. Per esprimere ciò che sento mi servo del mezzo più adatto per esprimere quell’idea, mezzo che è sempre anche quello più economico. Non mi interessa affatto essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo. Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri musicisti e poeti nello stesso tempo. Non ho mai condiviso il disprezzo ostentato dai pittori per la fotografia: fra pittura e fotografia non esiste alcuna competizione, si tratta semplicemente di due mezzi diversi, che si muovono in due diverse direzioni. Fra le due non c’è conflitto”. Egli infatti mette la fotografia al servizio della pittura. Riscopre indipendentemente la tecnica del cliché-verre (utilizzata un secolo prima da pittori come Corot e Delacroix), ma come supporto, anziché una lastra di vetro affumicato, usa una lastra negativa esposta alla luce, sviluppata e fissata sulla quale va a “disegnare”. Una volta finito, appoggia la lastra ad un foglio di carta sensibile e la espone alla luce ottendendo un numero indefinito di copie. La casualità con la quale egli scopre e riscopre le tecniche, sembra essere fortuita, ma non è così. In realtà è il risultato di un lavoro mentale che lo porta a considerare la macchina fotografica come un attrezzo al servizio della mente, e quindi ad affrontare certe problematiche inerenti al mezzo proiettandosi verso il nuovo, lo sconosciuto. Ed ecco che, mentre sta sviluppando un positivo, mette un foglio di carta sensibile non esposto nello sviluppo e vedendo che non appare immagine alcuna, lo mette da un lato appoggiandoci sopra un imbuto di vetro, una provetta ed un termometro. Quando riaccende la luce, si accorge che sulla carta comincia ad apparire le silhouette dei tre oggetti ottenendo un fotogramma che egli ribattezza Rayografia. Sostanzialmente il procedimento è lo stesso seguito da Talbot per ottenere i suoi calotipi, diverso è invece lo spirito di Man Ray che non vuole riprodurre la natura, bensì esprimere lo spirito Dada usando objets trouvés. Le Rayografie hanno la peculiarità di essere uniche e quindi non riproducibili. Le sue Rayografie, inoltre, si differenziano notevolmente da quelle dei suoi contemporanei, come Schad e Moholy-Nagy, in quanto utilizza la luce con angolazioni diverse per ottenere ombre che hanno una vasta gamma di grigi e quindi creano un senso di spazialità. Nessun altro fotografo ha sperimentato tanti procedimenti quanto Man Ray: la sgranatura, la distorsione ottenuta inclinando l’ingranditore, l’effetto rilievo ottenuto ingrandendo contemporaneamente un negativo ed una diapositiva della stessa immagine leggermente sfalsati, e soprattutto la solarizzazione, procedimento scoperto da Armand Sabattier nel 1860-62. Essa consiste nell’esporre alla luce, durante la fase di sviluppo, la carta con l’immagine latente; si ottiene così uno scurimento dei contorni che fa risaltare meglio il soggetto rispetto al fondo. L’uso della solarizzazione nel nudo fa’ sì che il soggetto “estraniato” abbia una valenza erotica relativa, mentre quando viene usata nei ritratti permette una quasi introspezione psicologica, benché, nel caso di Man Ray, essi sembrino seguire una sorta di stereotipo. La sua attrezzatura fotografica è estremamente basilare. Una “modesta Kodak”, lampadine e, in mancanza della camera oscura, il buio della notte.
Durante la sua vita alterna l’attività di fotografo a quella di pittore e cineasta. Partecipa a numerose mostre ed ottiene numerosi premi. Così come lo pseudonimo che egli adotta (Man= uomo Ray= raggio di luce) non ha nessuna particolare relazione con l’uomo, anche i titoli che egli dà alle sue opere non hanno analogia alcuna con il loro contenuto; forse rappresentano una sorta di indizio su una delle mille possibili interpretazioni che lo “spettatore” può ottenere facendo appello ai suoi pensieri ed alla sua immaginazione. É proprio tramite questa titolazione che egli compie l’operazione Dadaista di estraniazione dell’oggetto dal suo contesto. L’esempio più chiarificatore è quello della fotografia di un frullino che dapprima Man Ray intitola “La Femme” e poi, in seguito ad un’inversione di cartellini ad un’esposizione, diventa “L’Homme”; questo scambio non viene corretto in quanto, in ogni caso, i titoli non fanno riferimento diretto all’immagine. “Non bisogna rastrellare i nostri cervelli in cerca di una soluzione, dobbiamo vivere come se non ci fossero problemi e come se non ci fossero soluzioni da ottenere. Questa è l’arte finale che non richiede sforzo se non quello di vivere ed aspettare” Nel 1941 rientra negli USA dove resta sino al 1951, per poi ritornare a Parigi dove morirà nel 1976. Interessante è una considerazione fatta da Helmut Gernsheim, fotografo e storico della fotografia, sulle tecniche “sperimentali” che, in Europa si sono sviluppate nel periodo fra gli anni ’20 e ’30: “Innegabilmente questi esperimenti rivoluzionari hanno allargato i limiti della fotografia e sradicato le condizioni superate. La maggior parte di essi (esperimenti) sono stati ottenuti attraverso tecniche puramente chimiche o ottiche e quindi non possono essere criticate dal punto di vista fotografico. Tuttavia molti artifici hanno condotto ad un cul-desac come succede inevitabilmente quando i pittori si interessano di fotografia per scopi personali, dimenticando che la fotografia e pittura devono seguire strade differenti”.